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Anello in argento con lavorazione in filigrana e pietra vitrea incastonata, primi Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni, Presidente del gruppo folk “Antiche Tradizioni di Guspini”.
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Anello in oro con pietra verde incastonata, metà Ottocento.
Collezione famiglia Coa.
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Anello in oro con pietre nere (dette more), dono di fidanzamento, fine Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Anello in oro raffigurante al centro un’immagine sacra, fine Ottocento.
Collezione Marisa Murgia.
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Anello in oro maschile, dono di fidanzamento, fine Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Anello in oro con smeraldi, primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
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Anello in oro con brillante, anni Cinquanta.
Collezione Gianna Marrocu.
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Anello in oro con pietra incisa, anni Sessanta.
Collezione Gianna Marrocu.
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Bottoni in argento, utilizzati nel gilet del costume tradizionale maschile, metà Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Bottoni in argento, utilizzati per chiudere il colletto della camicia maschile, metà Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Bracciale in filigrana d’argento con cammeo incastonato al centro, primi Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Doppio bracciale rigido in oro da donna con ciondolo, primi Novecento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Bracciale rigido in oro da donna con ciondolo, primi Novecento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Su cadenatzu, accessorio del costume tradizionale femminile, inizi Novecento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Orologio da tasca, primi Novecento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Orologio da tasca, anni Trenta.
Collezione Gianni Locci, ereditato da Angelo Locci.
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Orologio da tasca, anni Quaranta.
Collezione famiglia Coa.
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Orologio da tasca, anni Quaranta.
Collezione famiglia Coa.
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Medaglia delle seconda guerra mondiale.
Collezione famiglia Coa.
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Arracadas de caboniscu, orecchini in oro lavorati in filigrana, fine Settecento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Orecchini in filigrana d’oro con turchesi, primi Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Orecchino in filigrana d’argento con pendente in onice, prima metà dell’Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Orecchini in argento con pendenti in corallo, fine Ottocento.
Collezione Maria Francesca Mandis.
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Orecchino in oro, fine Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Orecchini in oro a forma di margherita con pietra al centro, fine Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Orecchini in oro ad anello, fine Ottocento.
Collezione Marisa Murgia.
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Orecchino in oro con perla centrale, fine Ottocento.
Collezione Marisa Murgia.
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Orecchino in oro da bambina, fine Ottocento.
Collezione Marisa Murgia.
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Spilla in argento con lavorazione in filigrana e pietra in corallo incastonata, primi Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Spilla in oro da bambino con cornetto portafortuna, primi Novecento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Spilla in oro a forma di foglia con piccola perla al centro, primi Novecento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Spilla in oro con pietra centrale incastonata, primi Novecento.
Collezione famiglia Coa.
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Scatolina in oro porta pillole, primi Novecento.
Collezione Roberto Maccioni.
Foto di Marina Tolu.600600
la magia
- gioielli
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Elvira Pani - mexinas
Testimonianza di Elvira Pani
MexinasLa signora Elvira Pani racconta di mexinas e sussurra i brebus per il mal di pancia. Ma non solo. Racconta dettagliatamente anche la pratica dell’afumentu, specifica per le persone che hanno avuto un grande spavento, come un incidente stradale, e sono soggette a continui incubi. Per il rituale occorrono: palma, zucchero, caffè e semola che vanno preparati, da tre donne dal nome di Maria, disegnando con ciascun ingrediente tre croci. Tutti gli ingredienti si mettono poi nel braciere e la persona che ha subito lo spavento deve saltarlo componendo con i passi tre croci.
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Tiziana Leo - mexinas
Testimonianza di Tiziana Leo
MexinasLa signora Tiziana Leo racconta dei rituali di varie mexinas.
Con su scapulàriu, sacchetto contenente una testa essiccata di serpente tagliata mentre l’animale cerca di mordersi la coda, si effettua il rituale del contravelenu, per guarire dalle punture di insetto e altri strani dolori. Su scapulàriu va gettato a terra per raccogliere le energie del suolo. Facendo poi per tre volte il segno della croce, va passato sul punto dolorante e gettato di nuovo a terra così che le energie negative assorbite dalla persona ritornino alla terra. S’ossuru, invece, è un’antica “medicina” usata per curare le persone troppo magre o che dimagriscono eccessivamente. Per il rituale, accompagnato da brebus appena bisbigliati, occorrono strisce di una camicia dell’uomo di casa della famiglia della persona che si sottopone al rituale, con le quali si compongono piccole croci con al centro un pezzo di lardo. Con le croci occorre costruire un quadrato, composto da nove di queste croci per lato. Ogni croce va poi passata per tre volte sulle parti ossute e poi buttata nel fuoco per eliminare i malefici che la stoffa “raccoglie” dal corpo. -
Tiziana Leo - pane e segni scaramantici
Testimonianza di Tiziana Leo
Il pane e i segni scaramanticiLa signora Tiziana Leo racconta di alcune usanze legate al pane.
Quando si preparava il pane (su cocoi pintau) nel giorno del matrimonio, dopo che si sfornava su cocoi, si usava, rivolgendo le parti appuntite verso il basso, romperlo in testa allo sposo in modo da proteggerlo dalle “corna”. Un gesto scaramantico per augurare fedeltà reciproca alla coppia. Un’altra usanza è legata alla preparazione del pane: quando, per la prima volta, entrava in una casa una persona che non aveva mai assistito alla lavorazione del pane di quella famiglia, l’ospite doveva prendere un ramoscello di legno e gettarlo al fuoco per scacciare via la sfortuna e per consentire che la lievitazione andasse a buon fine. Secondo la tradizione, infine, anche quando si impastava bisognava rispettare una regola: mai uscire di casa con l’impasto ancora nelle mani perché altrimenti il pane non sarebbe venuto bene. -
Maria Manca - mexinas
Testimonianza di Maria Manca
MexinasLa signora Maria Manca racconta del rito del contravelenu.
Su contravelenu (o scapulàriu) si utilizzava quando qualcuno veniva punto da insetti. L’oggetto doveva sfiorare la parte interessata formando un segno della croce per poi essere buttato a terra. La sequenza andava ripetuta per tre volte, in modo da far guarire dal male. In caso di slogature, invece, c’era una preghiera in sardo specifica da recitare per facilitare la guarigione: la signora Maria Manca la racconta con una lucidità impressionante. -
Rina Ortu - rimedi naturali
Testimonianza di Rina Ortu
Rimedi naturaliLa signora Rina Ortu descrive su piripingiu, una tecnica di medicina omeopatica a base di sostanze naturali, come foglie e lardo, per curare vari dolori. Sono sostanzialmente l’equivalente di impacchi in grado di bruciare come fuoco grazie al calore che emanano. Anche su sceti imbriagu (la farina ubriaca) non è altro che un impasto di ingredienti della tavola, come farina, vino o aceto, induriti e posizionati sulla parte dolorante per dare sollievo. Anche gli stracci inumiditi con l’albume, una volta induriti, si utilizzavano in casi di slogature, come una sorta di ingessature naturali.
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Ottavia Lampis - rituali scaramantici e brebus
Testimonianza di Ottavia Lampis
Rituali scaramantici e brebusLa signora Ottavia Lampis racconta i rituali scaramantici per proteggere la famiglia dai fulmini. La donna recita una preghiera in cui si invoca l’aiuto di Santa Barbara e San Giacomo (che avrebbero, secondo quando dice la preghiera, le chiavi dei lampi e del paradiso) per salvare la casa e la famiglia dal maltempo.
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Aldo Serpi - mexinas
Testimonianza di Aldo Serpi
MexinasIl signor Aldo Serpi ricorda una scaramanzia di un tempo: mai regalare spille o oggetti appuntiti ai bambini – no si ndi giuat - ovvero, Dio non vuole. Il signor Aldo scava nei ricordi di bambino per parlarci anche dell’ogu liau, un rito e una preghiera, tramandata per generazioni, utile per “guarire” le persone oggetto di malocchio, invidia e gelosia da parte di altri. Quando la persona “presa d’occhio” cominciava a stare male, l’unico rimedio era questo rituale a base di preghiere, acqua, sale e grano. Quando si formavano le bolle accanto al grano era evidente il segno del malocchio. A quel punto occorreva bere quell’acqua per liberarsi dal male. La “medicina” funzionava solo su chi ci credeva veramente.
Contro l’orzaiolo, invece, serviva l’intervento di una ragazza vergine che, per tre volte, con il bordo del colletto della camicia, faceva il segno della croce sull’occhio malato. -
Annetta Saba - s’acua de patena
Testimonianza di Annetta Saba
S’acua de patenaLa signora Annetta Saba ha sempre fatto il rito dell’acua de patena, gratuitamente, a chi glielo chiedeva. Il soggetto, vittima di un malocchio, si reca da lei e lei prepara gli elementi necessari per compiere il rito: acqua, sale, grano. Per tre volte nel bicchiere pieno d’acqua aggiunge sale e grano componendo una croce. Si formeranno delle bolle vicino ai chicchi di grano tanto più grandi quanto più è alta la negatività che ha addosso la persona colpita dal malocchio. Dopo aver bevuto l’acqua con tre piccoli sorsi, la signora Annetta recita dei brebus. L’acqua avanzata deve essere gettata nel lavandino o in altro posto che non dovrà mai essere calpestato dal soggetto “guarito”.
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Angelina Vacca - mexinas
Testimonianza di Angelina Vacca
MexinasLa signora Angelina Vacca racconta dell’ogu liau.
I bambini molto belli spesso suscitavano troppe invidie e tendevano ad ammalarsi. Per questo, le mamme li portavano dalle “donne esperte” della mexina de s’ogu liau: loro preparavano subito un bicchiere con acqua, grano e sale e verificavano la gravità del malocchio dal numero di bolle che apparivano vicino ai chicchi di grano. Allora recitavano le preghiere, facevano bere alcuni sorsi d’acqua al bambino e, una volta gettata l’acqua rimasta in un posto che non doveva essere più calpestato, il bambino “guariva”.
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Sa perda de lati, fine Ottocento.
Veniva utilizzata, soprattutto nei bambini, per protezione e per scacciare il malocchio.
Collezione Roberto Maccioni.
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Collana da uomo stile tribale con dente di cinghiale, metà Ottocento.
Oggetto scaramantico per la caccia.
Collezione Roberto Maccioni.
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Pendente con cameo, fine Ottocento.
Oggetto scaramantico in oro e madreperla.
Collezione Roberto Maccioni.
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Su cocu, fine Ottocento.
Spilla da donna in argento, con globo di pasta vitrea azzurra e piccole perle di corallo, usata come amuleto contro il malocchio.
Collezione Roberto Maccioni.
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Su cocu, fine Ottocento.
Spilla da donna in argento, con globo in onice e piccole perle di corallo, usata come amuleto contro il malocchio.
Collezione Roberto Maccioni.
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Spilla in argento, con pietra in onice incastonata, utilizzata come amuleto nei rituali accompagnati dai brebus, metà Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Medaglione antiveleno (recto), fine Settecento.
Collezione famiglia Coa-Sanna.
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Medaglione antiveleno (verso), fine Settecento.
Collezione famiglia Coa-Sanna.
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Medaglione (recto) per il rito dell’acua de patena, fine Settecento.
Collezione famiglia Coa.
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Medaglione (verso) per il rito dell’acua de patena, fine Settecento.
Collezione famiglia Coa.
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Medaglione raffigurante santi, fine Ottocento.
Amuleto utilizzato nei riti contro il malocchio.
Collezione famiglia Coa.
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Contravelenu (letteralmente contravveleno), fine Ottocento.
Astuccio in cuoio contenente, secondo la tradizione, una testa di serpente; viene utilizzato sulle persone come un vero e proprio antidoto, un contravveleno, alle punture velenose provocate da insetti vari.
Collezione Marisa Murgia.
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Contravelenu (letteralmente contravveleno), fine Ottocento.
Astuccio in stoffa (scapulariu) contenente, secondo la tradizione, una testa di serpente; viene utilizzato sulle persone come un vero e proprio antidoto, un contravveleno, alle punture velenose provocate da insetti vari.
Collezione Tiziana Leo.
Foto di Marina Tolu.600600
La devozione
- gioielli
- le chiese
- feste e cerimonie
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Annetta Saba - il pane delle cerimonie
Testimonianza di Annetta Saba
Il pane delle cerimonie: usanze e portafortunaLa signora Annetta racconta delle usanze legate al pane.
Per il matrimonio si faceva un pane speciale chiamato cocoi pintau, bello e decorato, che veniva posizionato al centro della tavola degli sposi. Il cocoi, tondo o a forma di cuori che si incontrano, aveva delle lavorazioni a foglie di diverse forme (cuore, fiore, punta), fatte a mano, una per una, con un apposito coltellino, così che ogni pane cerimoniale diventasse un’opera d’arte. Veniva preparato dalle donne più esperte della panificazione. Il lavoro era lungo: impegnava prima gli uomini nell’impasto (ciuexiri su pani) e poi le donne che davano forma al pane e lo decoravano. Il primo pane uscito dal forno, volutamente poco appuntito per non causare male, veniva spaccato sulla testa dello sposo per buon auspicio nella vita matrimoniale. -
Maria Manca - matrimonio
Testimonianza di Maria Manca
Il matrimonioLa signora Maria Manca racconta del matrimonio tradizionale.
Una volta i sentimenti si dichiaravano in modo diverso. I protagonisti della storia d’amore non erano solo i due innamorati, ma anche le rispettive famiglie. Per ufficializzare una dichiarazione d’amore ci voleva un intermediario - su paboninpu - che si recasse a casa della famiglia della ragazza per comunicare i sentimenti dell’innamorato. Quando il fidanzamento diventava ufficiale, arrivavano i doni, ovvero ci si scambiava l’anello. Se poi tutto andava liscio si arrivava al matrimonio: si portava su presenti e si faceva su cocoi. Affinché su cocoi pintau fosse davvero bello, si chiamavano per prepararlo delle donne molto brave in modo da assicurarsi una bella figura. -
Maria Manca - festa di Santa Maria
Testimonianza di Maria Manca
Le tradizioni legate a Santa MariaLa signora Maria Manca racconta della festa di Santa Maria, la patrona di Guspini.
I bambini aspettavano con trepidazione la festa di Santa Maria, sa festa manna, perché era per loro una grande gioia. In questa occasione ricevevano uno dei rari regali di quell’epoca: su cungiobeddu, ovvero un piccolo recipiente in terracotta da usare per prendere l’acqua alla fonte: un appuntamento molto divertente per i più piccoli. -
Mondo Meloni - fidanzamento
Testimonianza di Mondo Meloni
Il fidanzamentoIl signor Mondo Meloni racconta del fidanzamento tradizionale.
I proprietari terrieri facevano i conti delle rispettive proprietà e delle possibilità di crescita economica con l’acquisto di nuovi appezzamenti. In base a questa logica combinavano i matrimoni dei figli. Niente amore, quindi, ma solo calcolo e interesse sottostavano alle regole del matrimonio, soprattutto tra le classi abbienti. Il matrimonio era una faccenda che la famiglia gestiva con un ruolo da protagonista. Per formalizzare gli accordi tra le parti, veniva mandato a casa della sposa un “ambasciatore”, detto pabonimpu, che aveva il delicato compito di chiedere da parte dell’aspirante sposo la mano della giovane. Doveva avere buone qualità di oratore in quanto il suo era un lavoro di convincimento: doveva vantare, quanto più possibile, lo sposo, il suo “portafoglio” e le sue proprietà per renderlo più interessante agli occhi della famiglia di lei. In alcune famiglie quando non era ancora stato individuato, tra i possibili candidati, il marito ideale, ci si prendeva gioco del pabonimpu. La persona incaricata dalla famiglia della sposa veniva accolta nel migliore dei modi: gli si offriva da bere continuamente, sino a farla ubriacare, e poi la si faceva accomodare su una sedia quasi rotta per farla volutamente cadere e poter dire: “Custa coja non parridi meda segura”. Cosicché, la difficoltà a reggersi in piedi facevano presagire altrettante insicurezze e instabilità per le future nozze. Quando invece il fidanzamento andava a buon fine, la buona notizia si ufficializzava a casa della sposa alla presenza dei parenti e prendeva il nome di s’acabamentu de coja. Una volta decisa la data del matrimonio si portavano tutte le cose e il corredo a casa degli sposi, sia a piedi con i cesti (is pobinas) che con i carri. Il corteo era tanto più lungo quanto era ricca la famiglia. Più gente partecipava al trasferimento dei beni, più enfasi si dava all’evento. -
Mondo Meloni - festa di Santa Maria
Testimonianza di Mondo Meloni
Festa di Santa Maria, tra leggenda e tradizioneIl signor Mondo Meloni racconta della festa di Santa Maria.
Santa Maria, sa festa manna, era un evento molto atteso. Tutto l’anno ai bambini si usava dire: “Po Santa Maria ti fatzu castiai sa mesa de is turronisi” (ti faccio vedere il tavolo con i torroni). Non c’era nessun guadagno, nessun soldino in regalo, solo la possibilità di vedere le bancarelle e riuscire ad assaggiare qualche pezzo di torrone, ma ai bambini sembrava un grande regalo. Intorno alla chiesa di Santa Maria si racconta una storia che risale ancora prima del 1300, periodo in cui la chiesa venne costruita. Si dice che un prete avesse commissionato la realizzazione della statua della Madonna e il suo trasporto in un carro guidato da buoi. Arrivati nell’attuale via Santa Maria, proprio sul punto in cui oggi sorge la chiesa, gli animali non si vollero più muovere. Per nessuna ragione riuscirono a farli ripartire. A quel punto, il prete disse: “Santa Maria bolit sa domu innoi”. E lì fece costruire la chiesa.
Molti sono convinti che la statua sia “viva”: le lasciano in dono gioielli che infilano nel letto del simulacro per chiedere grazie o per ringraziare di averle ricevute. Per la vestizione della statua vi sono delle donne “nominate” che hanno quest’incarico da circa venti-trent’anni che poi cedono alle figlie. Una storia dice che una volta una giovane, addetta alla vestizione della statua, dubitò fosse di “carne e ossa”. Forse vittima di una “fattura” di qualche strega, punse con un ago la Vergine dormiente. Si dice che la santa le diede un colpo con la mano e lei cadde a terra e morì. Forse un po’ per via di questa storia e soprattutto per rispetto verso la santa, le donne che oggi vestono il simulacro usano estrema delicatezza in queste operazioni, quasi preoccupate di “farle male”. -
Angelina Vacca - fidanzamento
Testimonianza di Angelina Vacca
Il fidanzamentoLa signora Angelina Vacca racconta del fidanzamento tradizionale.
La dichiarazione si faceva tramite lettera e non con messaggi al cellulare come oggi! Il primo interesse, dopo una brevissima frequentazione in cui ci si scambiavano dolci parole, doveva lasciare il posto a una volontà più ferma di fare progetti di vita assieme. L’innamorato, in pratica, doveva affrontare la famiglia della sposa per chiedere ufficialmente la mano della ragazza. Ma i genitori della futura sposa richiedevano anche l’impegno di tutta la famiglia del pretendente. Così si fissava un secondo incontro a casa della sposa allargato ad entrambe le famiglie: i parenti dello sposo stavano da una parte, dall’altra quelli della sposa. Il padre della sposo pronunciava le tradizionali parole: “Scipiaus poita seus benius” (sappiamo perché siamo venuti qui) e poi si concludevano “le trattative” con un piccolo invito. Successivamente a casa dello sposo si organizzava un grande banchetto per festeggiare s’acabamentu de coja (il fidanzamento ufficiale). -
Angelina Vacca - s’incresiamentu
Testimonianza di Angelina Vacca
S’incresiamentuLa signora Angelina Vacca racconta dell’usanza dell’incresiamentu.
Quando nasceva un bambino era sempre una grande festa. Per la madre però iniziava un piccolo periodo di “clausura” che poteva durare dai quindici ai quaranta giorni nei quali era per lei severamente proibito uscire di casa. Fino a quando non veniva benedetta dal sacerdote non poteva uscire con il bambino. Al suo posto lo facevano i familiari stretti. Anche il battesimo si svolgeva in sua assenza con i padrini e il padre del bambino. La madre doveva aspettare s’incresiamentu (l’ingresso in chiesa) per ritornare alla “normalità”. -
Ottavia Lampis - feste, matrimonio e lutto
Testimonianza di Ottavia Lampis
Feste, matrimonio e luttoLa signora Ottavia Lampis racconta della festa di Santa Maria, del lutto e matrimonio tradizionale.
I genitori di una coppia non permettevano ai figli di salutarsi e ancor meno “frequentarsi” senza il loro permesso. Eventuali “uscite” e scambi di frasi d’amore o di baci potevano avvenire solo in assoluto segreto. Se li avessero scoperti non sarebbero stati risparmiati dalle botte. Il fidanzamento e il matrimonio, una volta, erano esclusiva decisione della famiglia: un vero e proprio accordo tra le parti.
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Libro di preghiere e rosario in filigrana d’argento, primi Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Particolare del rosone a nove petali, del rosario in filigrana d’argento, con teca contente un frammento di broccato e preghiere, primi Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Rosario d’argento, 1950.
La suocera, la madrina, o la madre, usavano regalarlo alla futura sposa.
Collezione Marina Pinna.
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Rosario missionario in vetro e rame con le decine colorate con i colori dei cinque continenti, fine Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Rosario in semi di carruba e rame con l’effige della Madonna di Bonaria, primi Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Rosario in semi di carruba e rame, particolare della medaglia con l’effige della Madonna di Bonaria e della croce, primi Ottocento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Rosario in legno, primi Novecento.
Collezione famiglia Coa-Sanna.
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Rosario colorato, inizi Novecento.
Collezione famiglia Coa.
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Medaglia della Madonna (recto) delle giovani dell’Azione cattolica, primi Novecento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Medaglia della Madonna (verso) delle giovani dell’Azione cattolica, primi Novecento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Medaglia dell’Immacolata (recto), primi Novecento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Medaglia dell’Immacolata (verso), primi Novecento.
Collezione Roberto Maccioni.
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Medaglia benedetta (recto) con San Luigi Gonzaga.
Si portava anche per preservarsi dai mali.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglia benedetta (verso) con la Madonna.
Si portava anche per preservarsi dai mali.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglietta con la Madonna, fine Ottocento.
Collezione Marisa Murgia.
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Spille benedette raffiguranti la Madonna e inserite in un lembo di tessuto da portare addosso come protezione, fine Ottocento.
Collezione Marisa Murgia.
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Croce degli apostoli del cuore (recto), inizi Novecento.
Si portava anche per preservarsi dai mali.
Collezione Marisa Murgia.
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Croce degli apostoli del cuore (verso), inizi Novecento.
Si portava anche per preservarsi dai mali.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglietta della Madonna di Lourdes, inizi Novecento.
Si portava anche per preservarsi dai mali.
Collezione Marisa Murgia.
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Croce benedetta dell’OFTAL (l’associazione che si occupa dell’accompagnamento dei malati a Lourdes), primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglietta con la Madonna di Medugorje, primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglietta con l’effige della Madonna (recto), primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglietta con l’effige della Madonna (verso), primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
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Medagliette benedette, fine Ottocento.
Si portavano anche per preservarsi dai mali.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglie benedette con reliquie (recto), primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglie benedette con reliquie (verso), primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglietta di protezione (recto), fine Ottocento.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglietta di protezione (verso), fine Ottocento.
Collezione Marisa Murgia.
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Oggetti religiosi, primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglietta sacra, primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglietta sacra, primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
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Medaglietta sacra, primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
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Spilla benedetta, primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
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Spilla benedetta, primi Novecento.
Collezione Marisa Murgia.
Foto di Marina Tolu.600600
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La parrocchiale di San Nicolò, primi Seicento.
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Particolare del rosone in pietra caratterizzato da un complesso e fitto traforo.
Chiesa parrocchiale di San Nicolò.
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Particolare del portone.
Chiesa parrocchiale di San Nicolò.
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Particolare affrescato della volta a botte.
Chiesa parrocchiale di San Nicolò.
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L’Arcangelo Raffaele con Tobiolo. Statua di legno intarsiata e dipinta, bottega lonisiana, fine XVIII secolo.
Chiesa di San Nicolò (prima cappella a destra).
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Turibolo a tempietto gotico, pianta esagonale con rafforzi angolari e doppio ordine architettonico: quadrifore e trifore, argento sbalzato, cesellato e a traforo, bottega sarda, XVII secolo.
Chiesa di San Nicolò.
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Chiesa di Santa Maria di Malta.
Una cartolina degli anni Cinquanta mostra la facciata prima degli interventi di restauro che ne hanno parzialmente restituito l’aspetto originale.
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Chiesa di Santa Maria di Malta.
Della fabbrica ascrivibile al XII secolo la chiesa conserva soltanto la facciata di forme romaniche che si presenta oggi parzialmente risarcita nel suo aspetto originale.
Foto di Alberto Soi.600397 - images/morfeoshow/le_chiese-4413/big/009 chiese_guspini.jpg
Particolare dell’ampia finestra che sormonta il portale.
Chiesa di Santa Maria di Malta.
Foto di Alberto Soi.600401 - images/morfeoshow/le_chiese-4413/big/010 chiese_guspini.jpg
Particolare degli archetti che seguono l’andamento degli spioventi. Al di sopra degli archetti si trovano conci con alloggi per bacini ceramici.
Chiesa di Santa Maria di Malta.
Foto di Alberto Soi.600401 - images/morfeoshow/le_chiese-4413/big/011 chiese_guspini.jpg
La testa caprina che chiude la decorazione dell’arco della finestra in facciata.
Chiesa di Santa Maria di Malta.
Foto di Elio Gola.600399 - images/morfeoshow/le_chiese-4413/big/012 chiese_guspini.jpg
Particolare dall’architrave del portale laterale della facciata, decorato con una croce a otto punte.
Secondo alcuni studiosi la chiesa di Santa Maria di Malta sarebbe appartenuta ai Cavalieri dell’Ordine di Malta, attestati a Guspini nel XVI secolo.
Foto di Alberto Soi.600415 - images/morfeoshow/le_chiese-4413/big/013 chiese_guspini.jpg
Chiesa di Santa Maria di Malta.
L’edificio ha oggi tre navate spartite da arcate che si impostano su pilastri a pianta quadrata, abside semicircolare orientata a est e copertura lignea.
Foto di Alberto Soi.600401 - images/morfeoshow/le_chiese-4413/big/014 chiese_guspini.jpg
La statua lignea della Vergine dormiente, utilizzata per la processione dell’Assunta, il 15 agosto.
Chiesa di Santa Maria di Malta.
Foto di Alberto Soi.507600 - images/morfeoshow/le_chiese-4413/big/015 chiese_guspini.jpg
Pala d’altare di Michael Angelus Medici raffigurante l’Ascensione della Vergine, 1796.
Chiesa di Santa Maria di Malta.
Foto di Alberto Soi.401600 - images/morfeoshow/le_chiese-4413/big/016 chiese_guspini.jpg
Chiesa di San Pio X.
Ristrutturata di recente ha ritrovato il suo splendore originario.
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Chiesa di San Giovanni Bosco, nel quartiere Is Boinàrgius.
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Chiesa campestre di San Giorgio, in località Santu Pedru.
Foto di Alberto Soi.600401 - images/morfeoshow/le_chiese-4413/big/019 chiese_guspini.jpg
Chiesetta campestre di Sant’Isidoro, nell’area artigianale di Guspini.
Foto di Stefania Pusceddu.600367
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La parrocchiale di San Nicolò è il fulcro della vita religiosa del paese; qui ci si sposa – la scalinata è un set ideale per le foto di gruppo – e da qui parte la processione della festa più importante del paese, la festa di Santa Maria Assunta.
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1937 ca. Piazza XX Settembre, chiesa di San Nicolò. Matrimonio di Adele Raccis e Salvatore Boi.
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Anni Quaranta-Cinquanta. Guspini. Foto di matrimonio sul sagrato della parrocchiale di San Nicolò. A sinistra, giovani donne posano con le ceste del presenti.
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2 gennaio 1949. Parrocchia di San Nicolò. Matrimonio di Grazietta Lisci e Attilio Poddighe.
Foto dell’archivio comunale.600377 - images/morfeoshow/feste_e_ceri-6902/big/005 feste_cerimonie_guspini.jpg
Anni Cinquanta. Sagrato della parrocchia di San Nicolò. Matrimonio di Cesare Liscia.
Foto dell’archivio comunale.600373 - images/morfeoshow/feste_e_ceri-6902/big/006 feste_cerimonie_guspini.jpg
1909. In una cartolina indirizzata in Belgio, da Joseph a Leontine, la partenza della processione di Santa Maria dalla chiesa di San Nicolò.
Foto dell’archivio comunale.388600 - images/morfeoshow/feste_e_ceri-6902/big/007 feste_cerimonie_guspini.jpg
Anni Quaranta. La processione col simulacro dell’Assunta esce dalla parrocchia di San Nicolò diretta verso la chiesa di Santa Maria di Malta.
Foto dell’archivio comunale.600424 - images/morfeoshow/feste_e_ceri-6902/big/008 feste_cerimonie_guspini.jpg
2011. La confraternita di Santa Maria precede il simulacro dell’Assunta.
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2011. Il simulacro della Vergine dormiente viene scortato dalla polizia municipale in alta uniforme.
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2011. Alla processione della festa di Santa Maria, sa festa manna, partecipano numerosi i contadini sui loro trattori addobbati come un tempo si addobbavano le tracas.
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Portati in canestri, disposti artisticamente a formare tappetti decorati o sparsi in terra a creare sa ramadura, i fiori sono l’elemento decorativo più importante della festa.
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Guspini ha due gruppi folk ed entrambi partecipano alla processione. In questa foto la testa del gruppo folk “Santa Maria”.
Foto di Stefania Pusceddu.600432 - images/morfeoshow/feste_e_ceri-6902/big/013 feste_cerimonie_guspini.jpg
Componenti del gruppo folk “Antiche Tradizioni”.
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La recita del rosario scandisce il passo dei fedeli che seguono sempre numerosi la processione.
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La coccarda azzurra identifica un gruppo di uomini particolarmente devoto alla Madonna.
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Le autorità civili e militari, accompagnate dai membri del comitato che ogni anno organizza i festeggiamenti, sfilano anch’esse in processione davanti al simulacro ligneo della Vergine dormiente.
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La via Santa Maria, che unisce la parrocchia di San Nicolò con la chiesa di Santa Maria di Malta, è il teatro di una spettacolare infiorata che ogni anno accoglie il passaggio della Vergine Assunta.
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Il lungo e paziente lavoro di raccolta e disposizione dei petali in forme floreali, a comporre scritte o icone della Santa, è una grande manifestazione di arte popolare ed effimera.
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I volontari del gruppo “Infiorata” danno gli ultimi ritocchi prima del passaggio della Santa che comporterà anche la distruzione di questo capolavoro.
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Il punto d’arrivo dell’infiorata, poco prima del sagrato della chiesa di Santa Maria di Malta.
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Da sempre, in occasione della festa, la chiesa di Santa Maria di Malta viene riccamente addobbata. In questa foto degli anni Trenta si riconoscono (da sinistra) Virginia Frongia Cocco, tzia Pepa Casu e tzia Caterina Anna che ammirano orgogliose la loro opera.
Foto dell’archivio comunale.600386 - images/morfeoshow/feste_e_ceri-6902/big/022 feste_cerimonie_guspini.jpg
I cavalieri attendono, nel sagrato della chiesa di Santa Maria di Malta, l’arrivo della processione.
Foto di Stefania Pusceddu.600410 - images/morfeoshow/feste_e_ceri-6902/big/023 feste_cerimonie_guspini.jpg
Alla fine degli anni Quaranta un nutritissimo gruppo di cavalieri, ancora scarsa la meccanizzazione delle campagne, posa prima della processione di Santa Maria.
Foto dell’archivio comunale.600364 - images/morfeoshow/feste_e_ceri-6902/big/024 feste_cerimonie_guspini.jpg
A fine giugno il simulacro di Santu Pedru viene portato in processione su un carro a buoi nelle vie del quartiere Is Boinàrgius.
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Un gruppo di cavalieri segue la processione di Santu Pedru lungo la via Anna Frank, la via dei portici.
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La banda musicale “Città di Guspini” accompagna Santu Pedru.
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Chierichetti e fedeli, con lo stendardo della parrocchia di San Giovanni Bosco, accompagnano il santo lungo le vie del quartiere Is Boinàrgius.
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La festa di Sant’Antonio di Santadi è una delle processioni religiose più importanti e antiche della Sardegna. L’evento si ripete da oltre 400 anni in modo pressoché immutato: vi si partecipa in pellegrinaggio accompagnando la statua di Sant’Antonio, trasportata da un antico cocchio trainato da buoi, lungo un tragitto (di oltre 37 chilometri) che dalla chiesa di San Sebastiano di Arbus, passando per Guspini, arriva alla frazione di Sant’Antonio di Santadi, nella chiesa dedicata al santo. Numerosi sono i fedeli che seguono questo rito a piedi, a cavallo o sui carri trainati da buoi.
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La processione di Sant’Antonio di Santadi è accompagnata da gruppi in costume sardo, cavalieri, suonatori di launeddas, dalla banda musicale, dal parroco e dai carri a buoi e trattori addobbati a festa (tracas).
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La processione di Sant’Antonio di Santadi attraversa il centro abitato di Guspini e, dopo aver percorso una ventina di chilometri, si ferma per il pranzo e per far riposare gli animali nella località Pardu Atzei. Dopo circa due ore il corteo prosegue alla volta di Santadi.
Foto di Marina Tolu.600399
La devozione
La parrocchia di San Nicolò di Mira
La parrocchiale di San Nicolò di Mira sorge su un terrazzamento naturale, rinforzato con bastioni e dotato di una scenografica scalinata in granito realizzata nel 1864, ma successivamente ridimensionata per la sopraelevazione della piazza circostante. Il rettore di Guspini, canonico Antiogo Cara, in carica dal 1570 al 1602, dovette avviare una raccolta di fondi per la costruzione della chiesa, che esautorò quella di Sant’Alessandro dalle funzioni di parrocchiale. I lavori iniziarono solo a partire dal 1611, quando il rettore Antiogo Uda diede l’incarico ai picapedrers Giovanni Antonio Pinna di Cagliari e Antiogo Flores di Sardara. Tra il 1625 e il 1630 la chiesa ebbe completata la copertura e poté essere utilizzata a pieno titolo per le funzioni liturgiche.
La struttura originaria doveva essere a croce latina e copertura lignea; a metà Seicento il tetto ligneo fu sostituito con una volta a botte rinforzata da sottarchi. Il portale non si adegua agli stilemi rinascimentali con timpani e colonne ma presenta un’esile incorniciatura arcuata che media il sesto acuto con quello “a ferro di cavallo” dal vago gusto islamico e, comunque, in linea con i dettami della tradizione gotico-catalana. Agli angoli superiori della cornice, inoltre, insiste una coppia di nicchie archiacute, ognuna ospitante una testa marmorea virile con gorgiera, raffigurante probabilmente un nobile mecenate sardo-iberico, su capitello a fogliame; una terza testa, scomparsa, doveva essere collocata all’apice dell’arco.
Altro elemento di originalità è il rosone in pietra, dall’ampia cornice modanata a tori e gole, caratterizzato da un complesso e fitto traforo, uno dei pochi che nell’isola riprende gli stilemi del rosone catalano, secondo le indicazioni che potevano derivargli da quello della chiesa di Sant’Eulalia a Cagliari del quale, oggi, non rimane traccia, ben differente, comunque, dalla più diffusa tipologia a colonnine e archetti ogivali presente nei prospetti sardi seicenteschi e prossima ai rosoni gotici dell’Italia centrale.
La chiesa dedicata a Santa Maria di Malta
Il monumento architettonico più antico dell’abitato di Guspini è la chiesa dedicata a Santa Maria di Malta; della fabbrica ascrivibile al dodicesimo secolo, la chiesa conserva soltanto la facciata di forme romaniche. L'aula è stata ricostruita nel diciottesimo secolo. Secondo alcuni studiosi sarebbe appartenuta ai Cavalieri dell’Ordine di Malta, attestati a Guspini nel sedicesimo secolo. Ulteriore indizio è dato dall’architrave del portale laterale della facciata, decorato con una croce a otto punte.
L’edificio ha oggi tre navate spartite da arcate che si impostano su pilastri a pianta quadrata, abside semicircolare orientata a est e copertura lignea. La luce entra all’interno da monofore collocate nella parte alta della navata centrale così come nelle navatelle laterali. Nella zona presbiteriale si conservano una cornice di imposta decorata e una acquasantiera in pietra vulcanica dove si intravede una epigrafe parzialmente leggibile. La chiesa di Santa Maria di Malta custodisce anche la statua lignea dell’Assunta dormiente. La facciata dell’edificio si presenta oggi parzialmente risarcita nel suo aspetto originale: al centro si apre il portale sopraccigliato, sormontato da un’ampia finestra e da una serie di archetti che seguono l’andamento degli spioventi. Al di sopra di questi si trovano conci con alloggi per bacini ceramici.
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